Giuseppe Barbera*  09.05.2012 da “Il Manifesto”

Fino alla prima metà del Novecento la figura dell’agronomo ha rappresentato una sorta di mediazione fra l’empirismo contadino e il mondo scientifico. Molte innovazioni in agricoltura arrivavano dagli agricoltori che propagavano i semi migliori, guidavano gli incroci più efficienti, individuavano le mutazioni positive, mettevano a punto tecniche di coltivazione convalidate da anni di esperienza. Gli agronomi erano i codificatori e i diffusori di questi saperi.  

La loro trasmissione avveniva attraverso la sperimentazione che verificava e convalidava l’efficacia delle novità genetiche e tecniche nel contesto della variabilità ambientale propria dei sistemi agricoli. Non si faceva ricerca, in senso stretto, non si percorrevano strade “nuove”, ma questo non ha costituito un limite nel contesto sociale e culturale proprio di società ancora non compiutamente consumistiche, soddisfatte dalle risposte che arrivavano dai sistemi policolturali, dal loro lento adeguarsi lungo una strada millenaria di alleanza tra uomo e natura alle necessità che via via si manifestavano.

Poi la rivoluzione delle macchine e della chimica di sintesi, e quella genetica che l’ha accompagnata, ha cambiato tutto. I limiti ecologici entro i quali e con i quali operare potevano essere saltati, l’agronomo è passato a diffondere tecniche nuove per contesti nuovi: in risposta agli insuccessi è adesso sempre pronto con ulteriori innovazioni che sempre più però allargano il solco tra uomo e natura e sempre meno risultano sostenibili nel tempo e nello spazio e rispondenti alle necessità degli agricoltori.

I sistemi policolturali con i quali interagiva si nutrivano di una costellazione di saperi; in quelli monocolturali si assiste a un impoverimento delle concezioni generali a favore di uno specialismo sempre più particolare ed esclusivo. In università, nei laboratori e nei campi è il trionfo del riduzionismo. La macchina degli agrosistemi è smontata nelle sue parti e queste vengono sottoposte a studi parzialissimi.

E’ paradossale che questo sia successo contemporaneamente all’esplodere della questione ambientale e dell’agricoltura biologica. Succede il contrario di quello che sarebbe stato desiderabile; la ricerca in agricoltura biologica è lunga, difficile, incerta, non premia le carriere accademiche; la ricerca chimica e biotecnologica è spesso “facile” e veloce, si copiano, con piccole variazioni, protocolli messi a punto da altri, si spostano pezzettini di DNA, con relativa facilità e grande incoscienza: mica è compito dei biotecnologi preoccuparsi degli impatti ambientali, verificare i rischi per la salute, valutare l’impatto sulla biodiversità! In poche settimane un lavoro per una rivista scientifica con alto è bello e pronto. Prima ci volevano anni e, adesso, i lavori di sintesi – le review- indispensabili a far riflettere e crescere i giovani ricercatori in senso olistico sono considerati nei concorsi poco più che carta straccia e ancora meno se scritti in italiano: non sia mai che s’impari a scrivere oltre il linguaggio della propria scienza e a dialogare con il mondo dei tecnici o degli agricoltori

 

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Di cinzia

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