dal il manifesto del 3 ottobre 2012
di Paola Desai
Gli scienziati lo chiamano «minestra di plastica», plastic soup: una sorta di brodo tossico che si forma quando rifiuti di plastica si decompongono nell’acqua dei mari.
E’ un aspetto ancora poco considerato dell’inquinamento marino, quello delle nanoparticelle di plastica. Sappiamo che oggetti e rottami di plastica sono tra le fonti di inquinamento più pervasive degli oceani: e anche se non esiste una misura precisa di quanti rifiuti di plastica finiscano in mare, è verosimile che l’ordine di grandezza sia sulle decine di milioni di tonnellate ogni anno (una stima fatta nel 2006 dall’Unep, il programma dell’Onu per l’ambiente, dice ogni chilometro quadrato di mare ha in media 13 mila pezzi di plastica che vagano in superfice). Sappiamo che quelle tonnellate di oggetti, sacchetti, bottiglie, vengono prima o poi frantumati in pezzi e che finiscono spesso nello stomaco di pesci e altri animali marini. Il fatto è che le plastiche sono materiali di lunga durata; si frammentano, magari in pezzi piccoli, o microscopici, o perfino in nanoparticelle (particelle che misurano appena trenta milionesimi di millimetro), ovviamente invisibili a occhio nudo – ma restano nell’ambiente per centinaia d’anni (e questo vale anche per le cosiddette plastiche «biodegradabili», la cui unica differenza è che si scompongono più in fretta in micro frammenti). Altre fonti di nanoparticelle di plastica sono i cosmetici e creme, o fibre di tessuti sintetici, che arrivano in mare attraverso scarichi fognari. Diversi studi scientifici ormai mostrano che queste microplastiche possono rilasciare sostanze chimiche che disturbano i sistemi endocrini, minacciando la salute delle specie marine. Ora uno studio dell’Istituto per le risorse marine e gli ecosistemi dell’Università di Wageningen, in Olanda, ci dice qualcosa di più preciso sul «brodo» di nanoparticelle. Un gruppo di ricerca (guidato dal professor Bart Koelmans), ha studiato l’effetto della plastic soup sulle cozze che crescono nel mare del Nord. I ricercatori hanno esposto diverse colonie di cozze a diverse concentrazioni di nanoparticelle di plastica e hanno trovato che i molluschi esposti si nutrono di meno del loro cibo normale (alghe), e crescono di meno rispetto a quelli non esposti (lo studio è pubblicato in settembre dalla rivista scientifica Environmental Toxicology and Chemistry). Hanno colorato le nanoparticelle in modo da misurarle attraverso la dispersione di luce, e determinare così a quali concentrazioni si notano effetti sugli organismi viventi marini. Gli autori della ricerca spiegano che è molto difficile prevedere questi effetti, perché variano da un organismo all’altro: l’effetto delle nanoparticelle di plastica sulla vita marina resta qualcosa di cui si conosce molto poco. I ricercatori di Wageningen dicono che il loro studio non basta ancora a provare effetti letali, ma certo dice che un impatto c’è, e che è di estrema importanza studiare di più la questione. Lo stesso istituto olandese in effetti sta conducendo diverse ricerche sull’impatto della plastica nel mare del Nord. Un primo studio spiegava che il 95% delle procellarie artiche studiate del mare del Nord hanno decine di pezzi di plastica nello stomaco: la procellaria è un uccello marino comune, a prima vista assomiglia a un gabbiano e come questo si nutre di piccoli pesci o degli scarti buttati dalle navi, ma sempre più spesso mangia piccoli pezzetti di plastica che scambia per il suo cibo. Del resto, l’analisi di centinaia di pesci nel mare del Nord mostra che il 12% di loro ha dei rifiuti nello stomaco, e circa la metà di questi sono di plastica. La presenza di micro e nanoparticelle è se possibile ancora più subdola.