il manifesto 2012.08.24 – 02

SLOW FOOD

COMMENTO – Virginie Raisson

Immaginare quello che potrà diventare l’agricoltura mondiale nei prossimi 30 anni impone di stilare un bilancio ecologico di mezzo secolo di tecniche agricole intensive e di Rivoluzione verde.

Al suo avvio, la Rivoluzione verde consistette nel diffondere nei paesi in via di sviluppo varietà di grano, mais, riso o fagioli, selezionate per produrre il massimo di calorie e di proteine alimentari per ettaro. Da parte sua, la moderna agricoltura intensiva mira ad accrescere le rese grazie agli input, all’irrigazione e alla meccanizzazione. Cinquant’anni più tardi, se in molti concordano sull’importanza di queste rivoluzioni tecnologiche, al tempo stesso si osserva che esse si scontrano oggi i propri limiti. Soprattutto, si verifica che sono accompagnate da molteplici effetti indesiderati che mettono a rischio la sicurezza alimentare mondiale, come l’impoverimento genetico delle specie domestiche, la distruzione chimica della microfauna del suolo, lo scorrimento superficiale dell’acqua, l’erosione, la distruzione degli habitat e il declino di specie animali selvatiche; l’abbassamento delle falde… A questa lista incompleta vanno aggiunti anche gli effetti indesiderati dei progressi agronomici. Un buon numero delle specie introdotte dalla Rivoluzione verde hanno infatti mostrato la loro gracilità una volta impiegate in campo aperto, richiedendo, per potersi sviluppare, di disporre insieme di concimi di sintesi, insetticidi, fungicidi e diserbanti agrochimici. Da parte loro, le regioni nelle quali queste specie sono state coltivate su grande scala si trovano ora a fronteggiare gravi inquinamenti chimici. In zone aride o semiaride, l’inquinamento delle terre agricole è spesso aggravato da un effetto di salinizzazione dei terreni dovuto a un’irrigazione eccessiva e a un drenaggio insufficiente, con minaccia di desertificazione di intere regioni. In ultima analisi, affrontata in una prospettiva economica, ecologica, migratoria o climatica, la questione della sicurezza alimentare impone, perché una risposta sostenibile possa essere trovata, che siano assicurate quanto meno tre condizioni. È imperativo che i paesi del Sud del mondo recuperino la loro indipendenza alimentare riorganizzando la loro agricoltura di sussistenza; che possano proteggere le loro produzioni da talune forme di concorrenza, a cominciare da quella delle eccedenze cerealicole, carnee e lattiere dei grandi esportatori agricoli; che i contadini siano gli attori principali di questi cambiamenti, nella loro regione di origine, senza correre il rischio di alterare la biodiversità e le capacità produttive degli ecosistemi. Perché l’equazione alimentare non potrà nemmeno essere risolta in modo sostenibile se l’agricoltura stessa non contribuisce a preservare il capitale ecologico da cui la sua produttività dipende. Ancora teorica sul piano politico e finanziario, questa nuova rivoluzione agricola ha, tuttavia, già una sua formula che consiste anzitutto nell’adottare un atteggiamento di ragionevole prudenza riguardo alle biotecnologie e che poggia sull’utilizzo delle tecniche agronomiche già disponibili, che permettono di migliorare le rese per ettaro nonostante un minore uso di energia fossile e di composti chimici. Questa formula, infine, propone alle grandi potenze agricole che si volgono alla produzione di agrocarburanti di privilegiare modalità di coltura meno industriali, ecologicamente meno predatorie, e che consentano di rispondere all’esplosione della domanda di prodotti biologici. Suggerisce, infine, di mettere in opera con estrema sollecitudine un’utopia che è già necessaria. * tratto da «2033: Atlante dei futuri del mondo», Slow Food Editore 2012

Di cinzia

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