Fonte: Il Manifesto
EDITORIALE – Piero Bevilacqua
Riscoprendosi d’improvviso operaista, non a caso sull’Ilva, la ministra Fornero – la stessa che è stata protagonista della cancellazione dell’articolo 18 – ritiene che occorra «difendere l’identità della classe operaia a cui bisogna ridare dignità», come ha dichiarato ieri in una intervista.

Se i modi con cui intende farlo sono gli stessi con cui ha operato sinora, c’è da temere per la classe operaia e per tutti noi. Anche per quella che in questo momento si trova di fronte a problemi di non facile e immediata soluzione. Credo infatti anch’io, con Alberto Asor Rosa, che il dilemma lavoro/ambiente fatto emergere drammaticamente dalla vicenda dell’Ilva di Taranto, costituisca «la problematica fondamentale con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni» (il manifesto 5 agosto, in controreplica a Rossana Rossanda, il manifesto 31 luglio).  Aggiungerei che essa riporta in primo piano e in forma paradigmatica, il nodo teorico e culturale che la sinistra non è stata in grado di affrontare nella seconda metà del ‘900. E non soltanto in Italia. Certo, non sfugge a nessuno il dramma sociale che vivono in questo momento le migliaia di famiglie minacciate dalla perdita del lavoro e del reddito. E dunque sappiamo bene quale difficile compito sindacati e forze istituzionali hanno di fronte dopo la lodevole, coraggiosa, obbligata iniziativa della magistratura. Ma tale stato di necessità, questa gigantesca questione sociale in un momento per giunta acutissimo della Grande Crisi, non può impedirci di pensare ai significati più generali della vicenda e ai rischi che essa presenta. Asor Rosa paventa, osservando la riduzione della classe operaia italiana a «classe particolare», che essa finisca col porsi contro le ragioni dell’ambiente e quindi contro l’interesse generale. La sua legittima difesa del lavoro, infatti, la spinge a collocarsi a difesa della continuità produttiva e dunque dell’interesse padronale. Contro gli interessi degli altri cittadini che operai non sono, contro la salute del territorio tarantino, che riguarderà anche la vita delle prossime generazioni. Ma questo rappresenta esattamente il capovolgimento delle finalità strategiche e della storia della classe operaia. Quanto meno della classe operaia politicamente orientata dalla sinistra. E paradossalmente in una fase nella quale la difesa dell’ambiente raffigura il nuovo orizzonte di rappresentanza generale, la nuova universalità di una politica progressista. Io credo che tale condizione di subalternità della classe operaia e della sinistra non rispecchi soltanto la condizione politica di debolezza propria di questa fase storica, ma anche, e forse soprattutto, l’esaurimento di una tradizione teorica. Ci sono stati momenti in cui il movimento operaio è stato in grado, in Italia, di organizzare conflitti in difesa della salute in fabbrica, determinando talora mutamenti positivi nell’organizzazione del lavoro. Negli ’70 il movimento «Medicina democratica», grazie a Giulio A. Maccacaro, segnò in questo senso una grande novità nel nostro Paese. Ma l’analisi si limitava all’ambiente di lavoro e a problemi della salute, non andava oltre. L’ambiente naturale restava oltre i recinti pressoché dell’intera cultura nazionale. Credo, a tal proposito, che nessuno abbia mai sollevato, visto che parliamo di Taranto – neppure chi scrive – il sacrificio storico che il Mezzogiorno ha subito delle sue bellezze naturali, dei suoi paesaggi e delle sue risorse per rispondere alla fame di occupazione delle sue popolazioni. Una storia che è iniziata con Bagnoli, agli inizi del secolo scorso, e che è proseguita appunto con Taranto, con Brindisi, Manfredonia, Priolo, Siracusa, Gela, Porto Torres. Luoghi, talora di straordinaria bellezza, di notevole potenzialità turistica, costretti a ospitare industrie chimiche e siderurgiche altamente inquinanti, divoratrici di acqua e di suolo. Ricordo qui che è stata sufficiente la promessa di un centro siderurgico, a Gioia Tauro, per far sparire una delle agricolture più ridenti e prospere che sorgevano allora in fondo alla Penisola. Potrei azzardare che il bisogno di lavoro nel Sud ha favorito, nel secondo Novecento, una nuova geografia neocoloniale dell’ industrializzazione italiana. Una specifica «questione ambientale» si è incistata anche nel cuore della questione meridionale. Ma il ritardo culturale della sinistra sui temi dell’ambiente ha una portata teorica ben più vasta su cui cui occorre insistere. Soprattuto in momenti come questi, nei quali lo stato di necessità, spinge a ripercorrere il vecchio sentiero. Lo stesso modo con cui si pone il problema dell’Ilva di Taranto è rivelatore di questo limite radicale e originario. L’ambiente naturale viene infatti percepito solo in quanto danno alla salute delle popolazioni locali. E questo perché alla natura non viene assegnata nessuna realtà autonoma, nessun valore generale. Essa esiste se gli uomini che ci vivono subiscono danno, se produce perdite economiche, se si presenta come «esternalità negativa». Un antropocentrismo ingenuo, infatti, è sempre alla base del pensiero economico contemporaneo. Non mi riferisco tanto al pensiero economico neoclassico, che la natura non sa che cosa sia, quanto soprattutto al pensiero economico marxista. La teoria del valore lavoro su cui si fonda l’interpretazione marxista del capitale(che non esaurisce, ovviamente, il pensiero di Marx) ha tolto ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della ricchezza. Non diversamente che nella teoria capitalistica la natura viene ridotta a merce, degradata a «materia prima». È sufficiente darle un prezzo e il cerchio della razionalità economica appare perfettamente chiuso. Ma la natura non è una cosa, una quantità di materiale disponibile all’uso. Il rame del Cile, utilizzato nell’industria automobilistica ed elettronica, non è solo dato dalle tonnellate di materiale pronto alla valorizzazione e pagato dai capitalisti americani o giapponesi. Esso non è solo frutto del lavoro operaio, come continua giustamente, ma oggi limitatamente, a ricordarci la tradizione marxista. Dietro di esso c’è la distruzione di ecosistemi naturali che appartengono al popolo cileno e a tutti noi. Gli scavi minerari per produrre la materia prima necessaria all’industria, ancor prima che questa incominci a generare i suoi specifici danni, comportano la sbancamento di vasti territori, l’uso e l’inquinamento di fiumi e falde acquifere, l’ammassamento di montagne di scarti, la dispersione di veleni nell’aria, il consumo gigantesco di energia che contribuisce alla produzione di C02 e quindi al riscaldamento climatico globale. La preistoria della materia prima è da subito una vicenda di distruzione generale. L’economia capitalistica, dunque, non è una partita che si gioca solo tra operai e capitale. Essa coinvolge un Tertium, la natura, senza diritti e senza rappresentanze, ma che oggi acquista una universalità inoccultabile. Ovviamente son sempre gli uomini, è l’umano interesse alla salute e alla sopravvivenza a rappresentare i diritti di questo Tertium. Ma ora in una forma radicale e universale. E questo rinnovato antropocentrismo mette in luce, per la prima volta, un limite fondativo di egemonia del capitale: la produzione illimitata di ricchezza, con cui esso ha creato le basi del suo consenso, coincide sempre più perfettamente con la distruzione di ecosistemi limitati, con le fonti stesse della nostra prosperità e del nostro benessere. L’interesse privato del capitale non solo sottrae plusvalore al lavoro operaio, ma viene distruggendo i beni comuni della terra. Negli ultimi decenni la sinistra aveva davanti a sé una formidabile risposta teorica e culturale da dare alla retorica dell’individualismo neoliberistico. Non l’ha trovato, soprattutto perché inchiodata alla propria tradizione industrialista e sviluppista, chiusa nei limiti della proprie basi teoriche originarie. Ma non è riuscita a trovarla anche perché schiacciata dagli «stati di necessità» che ha dovuto di volta in volta affrontare. Le considerazioni realistiche di Rossana Rossanda, prima ricordate, ne costituiscono ancora oggi una testimonianza esemplare. Senza dire che, oltre una certa misura, il realismo rischia di coincidere con la difesa dello status quo. Io credo che la questione dell’Ilva possa costituire occasione per riprendere uno sguardo progettuale. Anche in questo momento difficile. Abbiamo ancora di fronte una prospettiva che rimane aperta e che fornisce a noi una nuova, straordinaria possibilità di allargare le alleanze della classe operaia a forze sociali varie e diverse. E al tempo stesso al mondo della ricerca e della scienza. Sempre che a questo mondo siamo in grado di chiedere non certo altra crescita, ma nuove forme di economia, nuovi paradigmi tecnici in cui collocare l’umana operosità.

Di cinzia

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